Capitolo 11: Acque Sotterranee e Processi Geologici

11
Acque Sotterranee e Processi Geologici

Traduzione: Marco Pola

Revisione: Paolo Cerutti

L’acqua sotterranea svolge un ruolo importante in numerosi processi geologici. Ad esempio, le pressioni dei fluidi che si sviluppano all’interno delle faglie sono attualmente riconosciute come un fattore che influisce sul loro spostamento e sulla generazione dei terremoti. In un altro ambito, i sistemi di flusso sotterraneo sono responsabili del trasporto di calore e di composti chimici all’interno di un complesso geologico e, di conseguenza, l’acqua sotterranea è importante in processi come lo sviluppo di sistemi termali, la termodinamica della messa in posto di plutoni, e la genesi di depositi minerari di interesse economico. In profondità, i sistemi di flusso sotterraneo influenzano la migrazione e l’accumulo del petrolio. Più in superficie, essi svolgono un ruolo in alcuni processi geomorfologici come il carsismo, lo sviluppo di pendii naturali e l’erosione fluviale.

In questo capitolo, verrà discusso il ruolo delle acque sotterranee in questi ed in altri processi geologi. La trattazione sarà breve, e la lista degli argomenti e dei riferimenti bibliografici sarà tutt’altro che esaustiva. Molti degli sviluppi riportati sono recenti. Gli effetti del flusso di acqua sotterranea non sono ancora stati studiati in modo approfondito nell’ambito della ricerca sui processi geologici.

11.1 Acque Aotterranee e Geologia Strutturale

Uno degli sviluppi recenti più interessanti in campo geologico riguarda l’influenza delle pressioni delle acque sotterranee sul movimento delle faglie e le relative possibili implicazioni per il monitoraggio e la previsione dei terremoti. Questi concetti furono sviluppati per la prima volta da Hubbert & Rubey (1959) nel loro classico lavoro sul ruolo della pressione dei fluidi nella meccanica delle faglie di sovrascorrimento.

La Teoria di Hubbert-Rubey riguardo le Faglie di Sovrascorrimento

Hubbert & Rubey stavano affrontando un mistero geologico noto da molto tempo. Fin dall’inizio del 1800, era stato osservato tramite dati di campagna che immensi blocchi venivano dislocati lungo sovrascorrimenti a bassissimo angolo coprendo distanze considerevoli. Erano stati mappati numerosi scorrimenti che coinvolgevano spessori di roccia di migliaia di metri e provocavano spostamenti di decine di chilometri. Quello che non era stato ancora compreso era il meccanismo di movimento. Erano stati effettuati numerosi calcoli che presupponevano l’azione di forze orizzontali o scivolamenti gravitativi come meccanismi di propulsione, ma tutti quanti erano stati compromessi dalla necessità di utilizzare attriti lungo il piano di faglia irrealisticamente bassi. Quando venivano utilizzati coefficienti di attrito più realistici, le analisi mostravano che le forze orizzontali necessarie per causare gli scorrimenti avrebbero originato delle tensioni che eccedevano di gran lunga la resistenza di ogni roccia conosciuta.

Hubbert & Rubey risolsero questo paradosso meccanico utilizzando la teoria della rottura di Mohr-Coulomb nella sua formulazione alle tensioni efficaci, come sviluppato nel Paragrafo 10.1. La loro analisi fu la prima a considerare il ruolo della pressione dei fluidi in profondità all’interno delle faglie. Utilizzarono la relazione descritta nell’Eq. (10.8), ma, come appare ragionevole nel caso di un piano di faglia senza asperità, considerarono la coesione trascurabile e posero c’ = 0. Il criterio di rottura diviene quindi

S_\tau = (\sigma - p) \tan \phi '(11.1)

dove Sτ è la resistenza al taglio che si deve superare per permettere il movimento, σ lo sforzo normale al piano di faglia, p la pressione dei fluidi, e φ’ l’angolo di attrito interno per l’interfaccia roccia-roccia. Hubbert & Rubey conclusero che servirebbero valori elevati di p (Eq. 11.1) per ridurre la componente normale al piano di faglia dello sforzo efficace diminuendo di conseguenza anche il valore critico dello sforzo di taglio necessario per produrre lo scivolamento. Dimostrarono che le forze orizzontali necessarie per produrre tali sforzi di taglio ed innescare lo spostamento non erano maggiori rispetto alla resistenza delle rocce. Inoltre fecero riferimento a misure in campi petroliferi per argomentare che fluidi ad elevate pressioni esistono comunemente in profondità. Gli sviluppi più recenti nella nostra comprensione dei sistemi di flusso regionali (come riportato nel Capitolo 6) hanno chiarito che queste elevate pressioni dei fluidi sono una naturale conseguenza all’interno dei sistemi idrogeologici sotterranei che si sviluppano nei primi chilometri della crosta terrestre in differenti contesti geologici.

La Figura 11.1 riproduce il diagramma di corpo libero proposto da Hubbert & Rubey per il blocco di un sovrascorrimento con dimensioni x1 e z1 spinto da dietro verso il basso lungo un piano inclinato di angolo θ.

Figura 11.1 Equilibrio degli sforzi agenti sul blocco di un sovrascorrimento nel momento di inizio del movimento lungo un piano di faglia inclinato (tratto da Hubbert & Rubey, 1959).

Il blocco viene mosso congiuntamente dallo sforzo totale, σx + p, applicato sul lato posteriore del blocco e dalla componente del proprio peso parallela al piano inclinato. Alla base del blocco si forma quindi uno sforzo di taglio con τ = Sτ nel punto di inizio dello scivolamento, dove Sτ è la resistenza al taglio del piano di faglia data dall’Eq. (11.1). L’equilibrio delle forze agenti su una sezione di spessore unitario perpendicolare al diagramma è data da

\int_0^{z_1} (\sigma_x - p)dz + \rho_b gz_1 x_1 \sin \theta - \int_0^{x_1} (\sigma_z - p) - \tan \phi ' dx = 0 (11.2)

dove ρb è la densità totale della roccia. Hubbert & Rubey risolsero l’Eq. (11.2) per x1, cioè la lunghezza massima del blocco che può essere mosso da questo meccanismo. Per effettuare questo calcolo, è necessario conoscere i parametri geometrici, θ e z1, le proprietà meccaniche, φ’ e ρb, ed il valore della pressione del fluido, p, sul piano di faglia. Hubbert & Rubey espressero quest’ultimo parametro utilizzando il rapporto <λ = p/σz. Fornirono una tabella con valori calcolati di x1 per un volume di roccia di 6,000 m di spessore appoggiato su un piano di faglia caratterizzato da valori di φ’ e ρb rappresentativi. Per valori di θ compresi fra 0 e 10° e di λ fra 0 e 0,95, la lunghezza massima del blocco che può essere spostato varia da 21 a 320 km. Queste lunghezze sono in accordo con i rigetti osservati lungo sovrascorrimenti. Hubbert & Rubey conclusero perciò che considerare la pressione delle acque sotterranee in prossimità del piano di faglia permette di superare il paradosso riguardante il meccanismo delle faglie di sovrascorrimento.

Previsione e Controllo dei Terremoti

I terremoti sono la manifestazione fisica dello spostamento di blocchi lungo un piano di faglia. La teoria di Hubbert-Rubey riguarda perciò direttamente la genesi dei terremoti. Inaspettatamente, alla fine degli anni ’60, ci fu una drammatica conferma dell’impatto dei fluidi ad elevate pressioni sulla generazione di terremoti in relazione all’attualmente noto pozzo di iniezione di Rocky Mountain Arsenal nei pressi di Denver, Colorado.

Nel periodo tra aprile 1962 e settembre 1965 nell’area di Denver furono registrati 710 lievi terremoti. Ciò rappresentava un mistero per i sismologi, dato che in precedenza l’unico terremoto registrato nell’area era avvenuto nel 1882. La soluzione al mistero fu fornita da Evans (1966) che notò che il primo terremoto si era verificato un mese dopo la prima iniezione di reflui liquidi nel pozzo dell’esercito degli Stati Uniti di Rocky Mountain Arsenal. Il pozzo di iniezione era stato progettato per lo smaltimento di acque reflue contaminate provenienti dall’omonimo impianto chimico. Il pozzo attraversava una successione sedimentaria attestandosi ad una profondità di 3,671 m all’interno di scisti e gneiss granitici precambriani fratturati. L’iniezione avveniva al ritmo di 12–25 l/s e ad una pressione di 3–7 × 106 N/m2. Evans notò che la frequenza dei terremoti nel periodo 1962–1965 era strettamente correlata con il volume di fluidi iniettati (Figura 11.2). Ulteriori indagini mostrarono che gli epicentri di quasi tutte le scosse erano localizzati entro un’area circolare di 16 km di diametro con centro situato a Rocky Mountain Arsenal.

Figura 11.2 Frequenza dei terremoti nell’area di Denver, 1962–1965, messa in correlazione con l’iniezione di acque reflue contaminate nel pozzo di smaltimento situato a Rocky Mountain Arsenal (tratto da Evans, 1966).

Ognuno dei terremoti della sequenza di Denver corrispondeva presumibilmente al movimento di una faglia profonda preesistente in prossimità del pozzo di Arsenal. Apparentemente, gli incrementi della pressione dei fluidi causati dalle iniezioni avevano l’effetto di innescare i piccoli movimenti delle faglie. Le osservazioni di Evans perciò fornirono una convincente conferma dei calcoli teorici effettuati da Hubbert & Rubey (1959). Healy et al. (1968) dopo una dettagliata revisione delle evidenze conclusero che il meccanismo di Hubbert-Rubey fornisce una completa e soddisfacente spiegazione dell’innesco dei terremoti di Denver.

Se l’aumento della pressione dei fluidi favorisce il movimento delle faglie, allora una diminuzione della pressione dovrebbe ritardarne il movimento, e questo aumenterebbe la possibilità di controllare i terremoti. Sismologi ed idrogeologi stanno lavorando congiuntamente per valutare la possibilità di un intervento umano nel processo di fagliazione. Il progetto più ambizioso sarebbe quello di agire su una faglia come la faglia di San Andreas in California, inibirne il movimento lungo la maggior parte del suo sviluppo estraendo i fluidi dalla zona di faglia, e successivamente stimolare spostamenti controllati in porzioni limitate del piano di faglia attraverso l’iniezione di acqua. In questo modo potrebbe essere possibile spostarsi progressivamente lungo la faglia riducendo lo stress tettonico che si accumula lungo il suo sviluppo per mezzo di una serie di piccoli movimenti controllati, piuttosto che aspettare un unico catastrofico terremoto.

Le complicazioni sociali ed etiche che nascerebbero da un’attenta valutazione di tale approccio, nonché le incalcolabili implicazioni di un fallimento tecnico, ritarderebbero sicuramente l’applicazione del controllo di terremoti in aree densamente popolate, e potrebbero anche fermarla. Tuttavia, esperimenti di campo a grande scala sono già stati effettuati in un’area meno popolata nei pressi di un campo petrolifero vicino a Rangely, Colorado. Il sito di Rangely era stato scelto poiché era stata registrata dell’attività sismica durante le ultime fasi di sfruttamento del serbatoio petrolifero, quando, per un programma di stimolazione e sfruttamento secondario della risorsa, erano stati iniettati dei fluidi utilizzando la tecnica del “waterflooding”. Healy (1975) afferma che il monitoraggio dei terremoti nel campo petrolifero iniziò nel 1969 e continuò fino al 1974. Un apposito intervento sulla pressione dei fluidi nella zona attiva iniziò nel 1970 e proseguì fino a dicembre 1973. Nella prima fase di questo esperimento, si ridusse la pressione nella zona sismicamente attiva, ottenendo una grande diminuzione della sismicità, in particolar modo entro 1 km dai pozzi di controllo. Nel novembre 1972, la pressione fu aumentata dando inizio ad una nuova sequenza sismica. Nel marzo 1973, il pompaggio fu invertito, la pressione dei fluidi nell’area di nucleazione dei terremoti diminuì e la sismicità si ridusse. Dopo 6 mesi non vennero registrati ulteriori terremoti in un raggio di 1 km dai pozzi di iniezione.

All’interno dello stesso studio, Raleigh et al. (1972) misurarono in laboratorio le proprietà meccaniche delle rocce su carote provenienti dal campo petrolifero. Questi dati, insieme ad alcune misure in situ dello stress, permisero di calcolare in maniera indipendente i valori di pressione dei fluidi ai quali era possibile aspettarsi la formazione di terremoto. Il valore critico previsto fu p = 2,57 × 107 N/m2. I valori nella porzione sismicamente attiva del serbatoio, misurati durante un periodo di frequenti terremoti frequenti, furono di 2,75 × 107 N/m2. Healy (1975) conclude che gli esperimenti di Rangely stabiliscono in maniera inconfutabile l’importanza della pressione dei fluidi come parametro critico nella nucleazione di terremoti.

È stato anche suggerito che misure di dettaglio riguardo la pressione dei fluidi nelle faglie potrebbero essere utilizzate come elementi precursori per indicare l’imminenza di terremoti. Scholz et al. (1973) forniscono una revisione del dilatancy model per la previsione di terremoti e descrivono il ruolo dell’interazione fra campi di stress e di pressione dei fluidi negli istanti immediatamente antecedenti l’effettivo innesco del movimento lungo la faglia.

11.2 Acque Sotterranee e Petrolio

Attualmente è ampiamente accettato (Weeks, 1961; Hedberg, 1964; Levorsen, 1967) che il petrolio abbia origine dalla materia organica incorporata all’interno di sedimenti fini durante la loro deposizione. Tuttavia, mentre argille ricche di materia organica e argilliti vengono trovate in ogni parte dei bacini sedimentari di tutto il mondo estendendosi su grandi aree e grandi volumi, gli odierni accumuli di petrolio si riscontrano in concentrazioni localizzate di volume relativamente limitato. Inoltre, tali accumuli non si formano nelle stesse argille o argilliti, ma piuttosto in arenarie grossolane e in rocce carbonatiche porose o fratturate. È chiaro che il petrolio deve subire sottoposto ad una migrazione significativa, dalle zone di origine molto disperse alle sue attuali posizioni di concentrazione ed intrappolamento. Durante questa migrazione, il petrolio è una componente immiscibile e probabilmente minore del volume di sottosuolo saturo di acqua. Pertanto è ragionevole analizzare il processo di migrazione e accumulo del petrolio alla luce delle nostre conoscenze sui sistemi regionali di flusso sotterraneo. Questa analisi ha anche conseguenze nel campo dell’esplorazione petrolifera.

Migrazione e Accumulo del Petrolio

La migrazione di petrolio viene spesso vista come un processo in due fasi. Il termine migrazione primaria si riferisce al processo per il quale l’acqua ed il petrolio in sospensione vengono espulsi dai sedimenti di origine a grana fine verso le parti più permeabili del sistema sedimentario, gli acquiferi. Il termine migrazione secondaria viene utilizzato per il movimento del petrolio e dell’acqua attraverso sistemi acquiferi verso trappole strutturali o stratigrafiche, dove si formano accumuli di olio e gas.

La migrazione primaria può essere vista come uno dei risultati del processo di consolidazione che avviene in sedimenti fini di deposizione recente. Bredehoeft & Hanshaw (1968) hanno dimostrato che l’aumento di carico causato dal continuo accumulo di nuovi sedimenti al tetto di una sequenza sedimentaria è sufficiente per provocarne la significativa consolidazione. Il meccanismo è identico a quello descritto per la subsidenza nel Paragrafo 8.12. Ancora una volta, la comprensione di questo processo è affidata all’equazione dello sforzo efficace

\sigma_T = \sigma_e + p (11.3)

In questo caso, è direttamente la variazione naturale dello sforzo totale, σT, che guida la consolidazione, piuttosto che una variazione artificiale indotta nella pressione del fluido, p, come nel caso di una subsidenza causata da sovrasfruttamento. In entrambi i casi, il risultato è un aumento dello sforzo efficace, σe, ed una compattazione dei sedimenti fini altamente compressibili. Durante il processo di consolidazione, l’acqua viene espulsa dai sedimenti fini verso qualunque acquifero che potrebbe presente nel sistema. Se le condizioni di pressione e temperatura nei sedimenti in fase di consolidazione sono favorevoli al processo di maturazione che trasforma la materia organica in petrolio mobile, allora il petrolio viene spinto con l’acqua all’interno degli acquiferi.

Fin dall’inizio del secolo (Rich, 1921), è stato chiaro che la migrazione secondaria di petrolio è causata dal movimento delle acque sotterranee nelle rocce serbatoio. L’acqua fornisce il mezzo di trasporto per le particelle immiscibili di petrolio che infine si accumulano per formare il giacimento petrolifero. Toth (1970) notò che l’accumulo di petrolio necessita dell’interazione contemporanea di almeno 3 processi: (1) apporto continuo di idrocarburi, (2) separazione dall’acqua che li traporta e ritenzione preferenziale degli idrocarburi dispersi, e (3) rimozione continua dell’acqua privata del suo contenuto di idrocarburi. Il primo ed il terzo processo richiedono un sistema di flusso idoneo. Per quanto riguarda il secondo processo, di norma si assume che la separazione del petrolio dall’acqua avvenga a causa di cambi di pressione, di temperatura o di salinità. Ognuno di questi fattori può portare alla flocculazione delle particelle di petrolio in accumuli di dimensioni maggiori fino a che venga raggiunta la continuità di fase del petrolio e possano entrare in gioco gli effetti del galleggiamento. Dato che l’olio ed il gas hanno densità inferiori rispetto all’acqua, si concentrano nelle parti superiori degli acquiferi nei quali fluiscono. Giacimenti di olio si formano dove strutture anticlinali o complessi stratigrafici formano una trappola per il petrolio, che ha bassa densità. Levorsen (1967) fornisce una revisione delle differenti condizioni geologiche che portano alla formazione di trappole petrolifere. Hubbert (1954) discute del meccanismo capillare in un sistema bi-fase acqua-olio spiegando l’efficacia di un orizzonte a bassa permeabilità come barriera per la migrazione del petrolio. Nel sottoparagrafo seguente, i concetti di Hubbert verranno ulteriormente dettagliati con riferimento all’interazione fra l’intrappolamento di petrolio ed il campo di carico idraulico nel sottosuolo.

Intrappolamento Idrodinamico del Petrolio

Il moto di olio, gas e acqua attraverso un mezzo poroso è un esempio di flusso multi-fase di fluidi immiscibili. Come riportato nella parte finale del Paragrafo 2.6, l’analisi di questi sistemi è estremamente complessa. È necessario considerare equazioni di Darcy differenti per ognuno dei fluidi che fluiscono contemporaneamente attraverso il sistema. Inoltre è necessario determinare le permeabilità efficaci del mezzo poroso per ognuna delle fasi. Dato che la permeabilità del mezzo è differente per ogni fluido, il modulo delle velocità di Darcy sarà differente per ogni fase.

Hubbert (1954) ha dimostrato che sia i moduli che le direzioni dei tre vettori di velocità sono differenti. Per spiegare questo punto, si consideri innanzitutto il diagramma riportato in Figura 11.3 (a) per un fluido mono-fase. La direzione di moto di un’unità di massa del fluido nel punto P è perpendicolare alle linee isopotenziali.

Figura 11.3 (a) Componenti della forza E agenti su una massa unitaria di acqua situata in un punto P di un sistema di flusso sotterraneo in condizioni stazionarie; (b) forze agenti su acqua, olio e gas in un sistema di flusso tri-fase in condizioni stazionarie (tratto da Hubbert, 1954).

La forza agente su un’unità di massa lungo la direzione di moto viene denominata con E. L’ Eq. (2.15) definisce il potenziale idraulico Φ come

\Phi = gz + \frac{p}{\rho} (11.4)

dove p è la pressione del fluido e ρ è la sua densità. Dato che il potenziale è definito in termini di energia per unità di massa, il lavoro richiesto per muovere una massa unitaria dal potenziale Φ + dΦ al potenziale Φ è semplicemente –dΦ. Con riferimento alla Figura 11.3 (a), è anche chiaro che il lavoro è uguale a E ds. Perciò, si ottiene

E = \frac{d \Phi}{ds} (11.5)

o, richiamando l’Eq. (11.4),

E = g - \frac{\nabla p}{\rho} (11.6)

dove g è un vettore con componenti (0, 0, -g) e ∇p è il vettore con componenti (∂p/∂x, ∂p/∂y, ∂p/∂z). Il vettore g agisce verticalmente verso il basso; il vettore ▽p può agire in ogni direzione, e in generale non sarà coincidente con g. La Figura 11.3 (a) è una rappresentazione grafica dell’Eq. (11.6).

In un sistema tri-fase, le densità dei fluidi non sono uguali. Si ha ρw > ρo > ρg, dove i pedici si riferiscono rispettivamente all’acqua, all’olio e al gas. Questo porta allo schema di vettori di Figura 11.3 (b). Questo diagramma fornisce una spiegazione grafica per la non coincidenza fra direzioni e moduli delle forze agenti Ew, Eo e Eg. Il gradiente idraulico per ogni fase avrà la stessa direzione della rispettiva forza.

L’evidenza pratica di questo fenomeno è rappresentata dall’intrappolamento idrodinamico del petrolio come proposto da Hubbert (1954). In Figura 11.4 vengono visualizzate sovrapposte le isopotenziali di olio e acqua relative ad un caso in cui avvenga un movimento verso l’alto dell’olio provocato dal galleggiamento in un acquifero in cui il flusso delle acque sotterranee è da sinistra verso destra. Hubbert (1954) afferma che la pendenza dell’interfaccia inclinata olio-acqua, dZ/dl, è data da

\frac{dZ}{dl} = \frac{\rho_w}{\rho_w - \rho_0}\frac{dh}{dl} (11.7)

L’interfaccia sarà orizzontale solo se non c’è gradiente idraulico. Per permettere ad una struttura o ad una monoclinale di trattenere l’olio, l’inclinazione del limite impermeabile nella direzione di movimento del fluido deve essere maggiore di quella dell’interfaccia acqua-olio. In caso contrario, l’olio sarà libero di migrare verso il basso insieme all’acqua. In aree ove un elevato gradiente idraulico porti ad un flusso relativamente veloce, sono necessarie trappole con pendenze di chiusura più ripide per trattenere l’olio rispetto a zone con un basso gradiente idraulico ed un flusso delle acque più lento. Al contrario, nelle zone in cui le immersioni sono abbastanza uniformi, le parti del bacino con basso carico idraulico producono un numero di aree favorevoli all’intrappolamento dell’olio maggiore rispetto a quelle idrodinamicamente più attive.

Figura 11.4 Sezione verticale attraverso una struttura con concavità pronunciata che evidenzia una trappola per olio controllata idrodinamicamente (tratta da Hubbert, 1954).

Sistemi di Flusso Regionale e Accumuli di Petrolio

Dovrebbe essere chiaro dalle due sottosezioni precedenti che ci sono due gruppi di condizioni che portano all’intrappolamento del petrolio. Il primo riguarda le condizioni geologiche che controllano l’assetto stratigrafico e strutturale e di conseguenza la presenza di trappole, mentre il secondo riguarda le caratteristiche del flusso di acqua sotterranea che controllano gli aspetti idrodinamici dell’intrappolamento. Analizzando questi ultimi aspetti, Toth (1970) notò che l’accumulo di petrolio dovrebbe essere favorito da (1) lunghi sistemi di flusso che attraversano un volume sufficiente di roccia sorgente; (2) zone idraulicamente statiche o quasi-statiche, dove ci si può aspettare che l’intrappolamento idrodinamico sia il più efficace; e (3) un movimento ascendente delle acque sotterranee attraverso il quale venga garantita una rimozione continua dell’acqua dalla trappola. Nel bacino sedimentario del Canada occidentale, dove sono noti molti campi petroliferi, Hitchon (1969a, 1969b) e van Everdingen (1968b) dimostrarono, basandosi su evidenze sia geochimiche che idrauliche, che sistemi di flusso estesi dalle Rocky Mountains allo scudo canadese si sviluppano nelle formazioni più profonde del bacino. Toth (1970) trovò delle conferme statistiche alle sue stesse ipotesi in molte zone dell’Alberta. I suoi risultati indicano che, in queste zone di indagine, le probabilità relative di una correlazione fra gli idrocarburi ed ognuna delle 3 condizioni sono: zone di flusso ascendente, 78%; zone di flusso quasi-statico, 72%; e sistemi di flusso regionali, 72%.

Hitchon & Hays (1971) utilizzarono un approccio simile nel bacino di Surat, Australia. Notarono che la presenza di idrocarburi si concentra in una delle zone di recapito del bacino. Tuttavia tale presenza non si limita a quest’area, e si osservano ampie porzioni della stessa zona di recapito che non hanno ancora fornito petrolio. I depositi di petrolio in profondità si ritrovano in un’area con flusso di acqua ascendente, ma non nelle zone con gradienti particolarmente bassi.

Un fattore basilare che si deve tenere a mente (van Everdingen, 1968b) durante l’analisi dell’impatto di sistemi di circolazione a grande scala sull’accumulo di petrolio è sicuramente che le attuali distribuzioni di carico sono recenti da un punto di vista geologico. La topografia attuale del Canada occidentale, ad esempio, si è formata probabilmente nella parte finale del Terziario. Nelle epoche precedenti, le distribuzioni del potenziale idraulico dovevano essere differenti se non altro per l’assenza delle aree di ricarica dei sistemi idrogeologici rappresentate dai rilievi delle Rocky Mountains. Sarebbe necessario investigare il regime paleo-idrologico per capire appieno le interazioni fra il flusso di acque sotterranee e gli accumuli di petrolio.

Implicazioni per l’Esplorazione Petrolifera

I risultati di Toth (1970) e di Hitchon & Hays (1971) sono probabilmente rappresentativi dei passi in avanti fatti fino ad ora nel mettere in relazione i sistemi di flusso sotterraneo ed i giacimenti di petrolio. Queste relazioni sono abbastanza riconoscibili, ma ben distanti dall’essere universali. Tuttavia, quello che dovrebbe essere chiaro da questa discussione è che, nella ricerca petrolifera, la comprensione dei sistemi di flusso tri-dimensionali esistenti nel sottosuolo e della loro formazione è importante tanto quanto la conoscenza dell’assetto stratigrafico e strutturale del bacino sedimentario. Hubbert (1954) osserva che se le condizioni idrodinamiche prevalgono, come quasi sempre capita, è importante determinarne dettagliatamente la natura effettuando un’analisi formazione per formazione all’interno di tutto il bacino, in modo da poter stabilire più accuratamente la posizione delle trappole e da non lasciarsi sfuggire giacimenti petroliferi altrimenti sconosciuti.

Hitchon (1971) riporta un’ulteriore idea per cui le interpretazioni dell’esplorazione geochimica in campo petrolifero dovrebbero tener nel dovuto conto i sistemi regionali di flusso di acque sotterranee. Egli afferma che, sebbene la prospezione petrolifera di superficie sia stata in qualche modo equivoca, la mancanza di successo non dovrebbe dipendere da possibili interruzioni nella sequenza logica di eventi fra il manifestarsi di un indicatore nel campo petrolifero e la sua comparsa in superficie, ma piuttosto sull’assenza comune di un’analisi dettagliata delle possibili vie di flusso nel sottosuolo attraverso le quali gli idrocarburi possono essere portati in superficie.

11.3 Acque Sotterranee e Processi Termali

A scala globale, il regime termico terrestre permette la formazione di un flusso di calore dagli strati più profondi del pianeta verso la sua superficie. Il gradiente geotermico, che è l’evidenza di questo regime dipendente dal flusso di calore, è stato ampiamente misurato dai geofisici coinvolti in lavori riguardanti il flusso di calore terrestre. In media, la temperatura aumenta di circa 1°C ogni 40 m di profondità. Tuttavia, questo gradiente è tutt’altro che uniforme. Nei primi 10 m circa, le variazioni diurne o stagionali della temperatura dell’aria determinano una zona con un regime termico transitorio. Al di sotto di questa zona gli effetti della temperatura dell’aria si attenuano rapidamente, ma gradienti geotermici anomali possono formarsi in almeno altri 3 modi: (1) come risultato di variazioni di conducibilità termica tra formazioni geologiche, (2) in risposta a sorgenti di calore profonde, come corpi magmatici effusivi o intrusivi geologicamente recenti, e (3) in seguito alla redistribuzione spaziale del calore da parte del flusso di acque nel sottosuolo. In questo paragrafo esamineremo questo terzo meccanismo in relazione al flusso naturale di acque sotterranee, ai sistemi geotermici ed ai regimi termici che si associano alla messa in posto di un plutone.

Prima di esaminare questi casi specifici, sono opportuni alcuni commenti generali. Il flusso simultaneo di calore e acqua sotterranea è un processo accoppiato del tipo introdotto nel Paragrafo 2.2. Il flusso dell’acqua è controllato dal campo di gradiente idraulico, ma ci potrebbe essere anche un flusso ulteriore favorito dalla presenza di un gradiente termico [come indicato dall’Eq. (2.22)]. Il calore è trasportato attraverso il sistema sia per conduzione che per convezione. Il trasporto per conduzione avviene anche in caso di acque sotterranee stagnanti. Esso è controllato dalla conducibilità termica delle formazioni geologiche e dell’acqua contenuta all’interno dei pori. Il trasporto convettivo si verifica solo nel caso di acque sotterranee in movimento. E’ costituito dal calore che viene trasportato insieme al flusso delle acque sotterranee. Nella maggior parte dei sistemi il trasporto convettivo è maggiore del trasporto conduttivo.

Comunemente si distingue fra due casi limite per il trasporto convettivo di calore. Nella convezione forzata, sono presenti flussi in entrata ed in uscita ed il movimento del fluido è dovuto alle forze idrauliche che agiscono ai bordi del sistema. Nella convezione libera, il fluido non può entrare o uscire dal sistema. Il moto del fluido è dovuto a variazioni di densità causate da gradienti di temperatura. Nell’analisi della convezione forzata, i gradienti di densità vengono ignoranti e gli effetti del galleggiamento sono considerati trascurabili; nella convezione libera, il moto del fluido è controllato dagli effetti del galleggiamento. Il trasporto di calore da parte di sistemi di flusso sotterraneo in condizioni naturali è un esempio di convezione forzata. Sistemi geotermici nei quali avvenga una transizione di fasi acqua-vapore vengono solitamente trattati come convezione libera. Molti sistemi geotermici comprendono una combinazione di entrambi i fenomeni. Questa condizione viene denominata con il termine di convezione mista.

Regimi Termici in Sistemi di Flusso Naturali di Acque Sotterranee

Si consideri una sezione verticale bidimensionale attraverso un sistema geologico termicamente ed idraulicamente omogeneo e isotropo. Si prenda dapprima in esame un caso, come quello mostrato in Figura 11.5 (a), in cui l’acqua nel sottosuolo sia in condizioni statiche. Il carico idraulico in ogni punto di questo sistema sarà uguale a z0, che rappresenta l’altezza della superficie della falda orizzontale al limite superiore del sistema. La Figura 11.5 (b) mostra il problema al contorno rappresentativo del regime di flusso di calore stazionario per il caso in esame. La temperatura, TS, alla superficie superiore è la temperatura media annua dell’aria. I limiti verticali sono isolati nei confronti del flusso di calore orizzontale. Il gradiente verticale di temperatura dT/dz alla base del sistema è uguale al gradiente geotermico, G. Le isoterme risultanti sono orizzontali. Le temperature delle acque sotterranee attese nei primi 100 m del sistema dovrebbero essere di circa 1–2°C superiori alla temperatura media annua dell’aria, in accordo con un gradiente geotermico uniforme.

Figura 11.5 Influenza di un sistema regionale di flusso sotterraneo semplice sulla distribuzione spaziale della temperatura lungo una sezione verticale (tratto da Domenico & Palciauskas, 1973).

Le Figure 11.5 (c) e (d) sono una generalizzazione dei risultati di Parsons (1970) e Domenico & Palciauskas (1973), ognuno dei quali ha studiato l’influenza di sistemi regionali di flusso delle acque sotterranee sulla distribuzione della temperatura. Domenico & Palciauskas utilizzarono delle soluzioni analitiche per risolvere il problema al contorno di flusso accoppiato; Parsons utilizzò soluzioni numeriche e fornì evidenze di campo per supportare i suoi risultati. La Figura 11.5 (c) è il sistema di flusso regionale semplice descritto precedentemente nel Capitolo 6. La Figura 11.5 (d) mostra come il regime termico venga modificato dal trasporto convettivo di calore. Il gradiente geotermico è maggiore in prossimità della superficie nelle aree di recapito rispetto a quello nelle aree di ricarica. Tale gradiente aumenta all’aumentare della profondità nelle aree di ricarica, e diminuisce nelle aree di recapito. Domenico & Palciauskas (1973) evidenziano che gli effetti sono più pronunciati in regioni di flusso nelle quali la profondità e l’estensione laterale del bacino sono dello stesso ordine di grandezza, e meno pronunciati in sistemi di flusso superficiali con grande estensione laterale. Parsons (1970) evidenzia inoltre che gli effetti sono maggiori in depositi ad elevata permeabilità, dove le velocità di flusso delle acque sotterranee sono maggiori, rispetto a quelli a bassa permeabilità, dove le velocità sono ridotte.

Cartwright (1968, 1974) descrisse metodi attraverso i quali si possono usare misure di campo delle temperature del suolo e delle acque sotterranee superficiali per distinguere le aree di ricarica da quelle di recapito e per la prospezione di acquiferi superficiali. Schneider (1962) mostrò che anomalie locali di temperatura nel sottosuolo possono essere utilizzate per identificare un’infiltrazione da parte di acque superficiali.

Stallman (1963), nel presentare le equazioni per il flusso simultaneo di acqua sotterranea e calore, suggerì che misure di temperatura delle acque sotterranee lungo profili verticali potrebbero rappresentare un metodo utile per stimare le velocità delle acque sotterranee. Bredehoeft & Papadopoulos (1965) forniscono una soluzione per le equazioni di Stallman per flusso verticale monodimensionale di acqua e calore in condizioni stazionarie. Inoltre forniscono una serie di curve standard attraverso le quali si possono calcolare le velocità delle acque partendo dai valori di temperatura. Se si dispone anche di misure di carico idraulico, il loro metodo può essere utilizzato per calcolare la conducibilità idraulica verticale.

Sistemi Geotermici

Recentemente è stato registrato un interesse considerevole nello sviluppo dell’energia geotermica, che ha portato a ricerche sempre più approfondite riguardo la natura dei sistemi termali. Elder (1965) e White (1973) forniscono un’eccellente rassegna riguardo le caratteristiche di aree geotermiche e dei processi fisici ad esse associati. Witherspoon et al. (1975) recensiscono i differenti modelli matematici che sono stati proposti per simulare i sistemi geotermici.

L’energia geotermica viene estratta prelevando il calore dalle acque calde pompate in superficie mediante pozzi. Per avere un interesse pratico, i serbatoi geotermici devono avere temperature maggiori di 180°C, un volume adeguato ed una permeabilità sufficiente per assicurare un apporto di fluidi verso il pozzo duraturo e con una portata adeguata. Quanto più la risorsa geotermica è superficiale, tanto favorevole economicamente sarà il suo sfruttamento. Per questa ragione è stata dedicata molta attenzione alla comprensione dei meccanismi che possono portare fluidi ad alte temperature fino a basse profondità. Attualmente è chiaro che questa situazione è di solito riconducibile a sistemi di convezione idrotermale nei quali la maggior parte del calore viene trasportata dai fluidi circolanti. Si possono immaginare due tipi di meccanismi. Il primo è il sistema a convezione forzata suggerito da White (1973) e mostrato in Figura 11.6 (a), per cui un sistema di flusso locale viene alimentato e drenato attraverso zone fratturate verticali altamente permeabili e si riscalda in profondità durante la permanenza in strati più permeabili. Questo assetto può dare origine a manifestazioni superficiali come geysers e sorgenti termali nella zona di recapito del sistema. Donaldson (1970) descrisse un modello quantitativo semplificato per la simulazione di sistemi di questo tipo.

Il secondo meccanismo è quello della convezione libera in un acquifero confinato profondo. Come mostrato in Figura 11.6 (b), un sistema nel quale il tetto ed il letto di un acquifero sono impermeabili al flusso di fluidi, ma permeabili al flusso di calore, porterà allo sviluppo di celle convettive che deformano il gradiente geotermico uniforme dell’acquifero creando zone fredde e calde alternate al suo tetto. Questo tipo di flusso convettivo è conosciuto nella meccanica dei fluidi fin dall’inizio del secolo scorso. La sua importanza nei processi geotermici fu portata all’attenzione dei geofisici da Donaldson (1962).

Figura 11.6 UMigrazione verso l’alto di acque calde all’interno di acquiferi termali superficiali dovuta ad (a) una convezione forzata attraverso vie preferenziali ad elevata permeabilità (tratto da White, 1973) ed (b) una convezione libera in un acquifero confinato (tratto da Donaldson, 1962).

A prescindere dal meccanismo che porta fluidi termali fino a basse profondità, i sistemi geotermici possono essere ulteriormente classificati in sistemi ad acqua calda e sistemi a vapore dominante (White, 1973). Nella tipologia ad acqua calda, l’acqua è la fase continua attraverso tutto il sistema e perciò ne controlla la pressione. Nella tipologia a vapore dominante, il vapore acqueo è la fase continua che controlla la pressione, sebbene ci sia un generale accordo sul fatto che nel sistema sia presente anche acqua in fase liquida. Dato che alcuni sistemi geotermici producono vapore surriscaldato senza fase liquida associata, i sistemi a vapore dominante sono talvolta chiamati sistemi a vapore secco. La termodinamica dei sistemi geotermici a vapore dominante interessati da convezione libera o forzata è un argomento avanzato di attuale interesse per i ricercatori idrogeologi.

Dato che solo raramente si verificano tutte le caratteristiche necessarie per rendere un campo geotermico sfruttabile, queste risorse non sembrano offrire una panacea per i problemi energetici dell’umanità. White (1973) sintetizza la capacità di generare energia geotermica nel mondo riferita al 1972.

Nelle aree in cui le risorse geotermiche sono economicamente significative, si sta sviluppando molta ricerca sull’applicazione di modelli per simulare i sistemi di flusso di fluidi e di calore. Mercer et al. (1975), ad esempio, hanno sviluppato un modello mono-fase, bi-dimensionale, orizzontale, agli elementi finiti, per il sistema geotermico di Wairakei in Nuova Zelanda. La futura speranza è che modelli di questo tipo permetteranno di aumentare l’efficienza dello sfruttamento del calore geotermico aiutando la progettazione ottimale della spaziatura fra i pozzi e della loro portata, in maniera analoga ai modelli idrogeologici convenzionali discussi nel Capitolo 8. Tuttavia, non è ancora chiaro se si riusciranno a superare gli ingenti costi e le difficoltà tecniche per ottenere dati sufficienti da profondità così elevate in sistemi caldi. Fintanto che la loro applicabilità non verrà confermata per casi reali, la modellazione in campo geotermico rimarrà uno strumento potenzialmente molto potente, ma con un’utilità ancora da dimostrare.

Messa in posto di un Plutone

Norton & Knight (1977) hanno studiato un sistema di flusso di calore e di fluidi di considerevole importanza geologica. Gli autori utilizzarono un modello numerico per simulare il regime termico determinato dalla messa in posto di un plutone in profondità. La Figura 11.7 mostra il problema al contorno che presero in considerazione. Il sistema è termicamente isolato alla base e conduttivo lungo gli altri tre lati. Il sistema è del tipo a convezione libera, nel quale tutti e quattro i bordi sono impermeabili al flusso di fluidi. Norton & Knight effettuarono delle simulazioni in condizioni transitorie che dimostrarono l’incremento nel tempo del regime termico anomalo ed il suo decadimento. Il lato destro della Figura 11.7 mostra il campo di temperatura 50.000 anni dopo la messa in posto di un plutone con temperatura di 920°C in rocce incassanti con un gradiente geotermico iniziale di 20°C/km. Il campo è simmetrico rispetto alla linea centrale. Il lato sinistro del diagramma mostra, per il medesimo istante di tempo, una delle due celle convettive di circolazione di fluido simmetriche. Nel lavoro originale gli autori riportarono anche alcuni esempi di linee di flusso (Paragrafo 2.8) che indicano il percorso seguito da singole particelle di acqua durante l’evento transitorio. Gli autori concludono che, in sistemi interessati dalla messa in posto di un plutone, le acque si allontanano dal loro punto di origine percorrendo molti chilometri in alcune centinaia di migliaia di anni. Una circolazione a così grande scala è di enorme importanza per capire la genesi di depositi di minerali idrotermali che spesso sono associati ad ambienti plutonici.

Figura 11.7 (a) Distribuzione di temperatura e (b) circolazione di fluidi 50.000 anni dopo la messa in posto di un plutone di 920°C all’interno di rocce incassanti interessate da un gradiente geotermico normale di 20°C/km. La permeabilità dell’incassante è di 10–11 cm2 (tratto da Norton & Knight, 1977).

11.4 Acque Sotterranee e Geomorfologia

Carsismo e Grotte

Un paesaggio che mostri nella morfologia superficiale irregolarità causate dalla dissoluzione delle rocce è conosciuto come paesaggio carsico, nome derivante dalla regione del Carso situata nell’ex Yugoslavia (attualmente nel territorio di Slovenia e Croazia; n.d.r.). I paesaggi carsici si formano solitamente in calcari e secondariamente in dolomie, ma si possono sviluppare anche in aree dove affiorano formazioni gessose o evaporitiche. I processi che si sviluppano in rocce carbonatiche saranno l’oggetto di questa discussione.

Le irregolarità topografiche in aree carsiche sono causate dalla rimozione in superficie o nel sottosuolo dell’ammasso roccioso per effetto della dissoluzione della calcite o della dolomite. Le aree carsiche sono normalmente caratterizzate da grotte che si sviluppano in seguito alla dissoluzione lungo giunti di stratificazione, piani di strato o altre aperture. Nelle principali regioni carsiche esistono grotte estese per migliaia di chilometri, raggiungendo localmente profondità superiori a 1 km. In alcune parti del mondo, esistono sistemi di grotte in aree dove l’originaria natura carsica del paesaggio è stata obliterata da processi geomorfologici più recenti, come glaciazioni o alluvionamento.

Thraikill (1968) afferma che studi di cavità carsiche in calcari, effettuati da diversi geologi, hanno portato a tre conclusioni generali riguardo la loro origine: (1) la maggior parte delle grotte in calcari si formano per dissoluzione da parte di acque meteoriche fredde, (2) molte di queste grotte sono state scavate quando la roccia era completamente satura d’acqua, e (3) alcune di queste grotte al di sotto della tavola d’acqua mostrano superfici orizzontali o passaggi con sviluppo orizzontale che non sono correlati con la stratificazione o con altre strutture delle rocce incassanti.

È evidente che nelle fasi iniziali del processo di formazione di una cavità il calcare debba avere alcuni giunti o piani di strato aperti, o possibilmente dei vuoti ben interconnessi. Solamente alcuni degli innumerevoli giunti e piani di strato presenti in aree carsiche vengono allargati fino a formare cavità e cunicoli. È una combinazione di fattori quella che causa la penetrazione di acqua sotto-satura in calcite per lunghe distanze ed all’interno solo di alcuni giunti. Sostanzialmente, questo processo porta ad un allargamento preferenziale delle stesse aperture. Questo, a sua volta, provoca la cattura di un flusso maggiore da parte dei canali ampliati, e attraverso la connessione di questi canali si evolve il processo di sviluppo delle caverne.

La Figura 11.8 mostra un esempio di grotta orizzontale che taglia alcuni giunti e piani di strato. Si pensa che queste grotte si formino a basse profondità al di sotto della tavola d’acqua. Questa situazione è intuitivamente ragionevole se si considera che l’allargamento di canali o caverne deve essere opera del flusso di acqua sotterranea sotto-satura in calcite. Al procedere del flusso nella roccia, l’acqua si avvicina al punto di saturazione avendo quindi meno capacità di allargare il canale di flusso.

Figura 11.8 Profilo schematico delle Lehman Caves, Nevada (tratto da Moore & Nicholas, 1964).

Il problema più difficile nel capire l’origine delle grotte è come spiegare la presenza di acque sotto-sature a distanze considerevoli dalla superficie. Come indicato nel Capitolo 7, è ben noto da esperimenti di laboratorio che l’acqua a contatto con calcari raggiunga la saturazione abbastanza velocemente rispetto alle velocità di flusso che normalmente si osservano in calcari carsificati. Gli esperimenti in laboratorio di Howard & Howard (1967) sono particolarmente illustrativi di questo processo. Thraikill (1968) concluse che l’assorbimento di CO2 nel suolo ha una scarsa correlazione con la formazione di grotte nella zona al di sotto della tavola d’acqua. Le osservazioni effettuate al di sopra della tavola d’acqua riguardo alle caratteristiche chimiche dell’acqua durante l’infiltrazione attraverso aperture secondarie indicano che quest’acqua è solitamente satura o sovra-satura in calcite, spesso a causa dell’effetto combinato della dissoluzione della calcite e del degassaggio di CO2. Se un’acqua di questo tipo non è aggressiva nei confronti della roccia, si pone un problema riguardo l’allargamento dei condotti al di sotto della tavola d’acqua. Per produrre dell’acqua sotto-satura a basse profondità al di sotto della tavola d’acqua, sono stati suggeriti i seguenti meccanismi: (1) cambiamenti di temperatura dell’acqua sotterranea, (2) miscelazione di acque differenti, (3) esondazione di corsi d’acqua in superficie o rapido scioglimento della neve che causano una veloce ed abbondante ricarica di acqua sotto-satura, e (4) produzione di acidi lungo i percorsi di flusso.

Può essere dimostrato attraverso considerazioni di carattere geochimico che l’acqua risultante dal mescolamento di acque sature in calcite ne è leggermente sotto-satura, purché le soluzioni originali abbiano differenti pressioni parziali di CO2 (Wigley & Plummer, 1976) o temperature (Thraikill, 1968). Dato che l’acqua appena al di sotto della tavola d’acqua è solitamente una miscela di acque provenienti da differenti aree di infiltrazione o da zone fratturate, e dato che anche un leggero grado di sotto-saturazione è sufficiente per scavare una grotta in tempi geologici, questo meccanismo è spesso citato nelle discussioni sulla genesi di grotte. È stato tuttavia difficile ottenere dati di campo che avvalorino questa tesi.

Thraikill (1968) nota che molti dei processi ritenuti importanti nello sviluppo di grotte agiscono più efficacemente durante eventi di piena. Egli afferma che la forma di alcune grotte suggerisce che l’ampliamento più efficace avvenga fra un minimo ed un massimo della tavola d’acqua.

Moore & Nicholas (1964) evidenziano che in alcuni casi l’ossidazione di piccole quantità di minerali sulfurei, specialmente la pirite, può causare una diminuzione del pH dell’acqua sotterranea e, di conseguenza, favorire la dissoluzione della calcite e formare un ampliamento della cavità carsica. L’ossigeno disciolto dovrebbe essere l’agente ossidante più attivo. Se avviene questo processo, ci si può aspettare che sia limitato alle zone più superficiali, dove l’ossigeno disciolto in acqua è più abbondante.

In sintesi, il carsismo e le grotte sono probabilmente la prova più evidente della capacità del flusso delle acque sotterranee di alterare la forma della superficie terrestre e del sottosuolo. Non servono conoscenze specialistiche per riconoscere che il calcare sia scolpito e scavato da acque chimicamente aggressive. Da un’analisi più attenta è chiaro tuttavia come una più completa comprensione della genesi delle grotte offra ampio spazio per l’applicazione di concetti idrologici e geochimici che coinvolgono interazioni complesse nel tempo e nello spazio. Holland et al. (1964), Howard (1964a, 1964b), Thraikill (1968) e Ford & Cullingford (1976) forniscono discussioni più ampie sui processi di allargamento di fratture e di formazione di grotte.

Sviluppo di Pendii Naturali

I processi che portano allo sviluppo di un pendio naturale sono stati descritti sia qualitativamente che quantitativamente in modo molto dettagliato da Carson & Kirkby (1972). Gli autori osservano che qualunque morfologia di pendio può essere vista come il risultato di un processo in due fasi nelle quali il materiale viene prima svincolato dal proprio substrato, per effetto dell’alterazione superficiale, e poi viene mobilizzato mobilizzato verso il basso da un’ampia varietà di possibili processi di trasporto. Il flusso sotterraneo saturo-insaturo all’interno del pendio è un elemento importante in entrambe le fasi del processo.

L’alterazione del substrato alla base di un suolo è un processo per lo più di natura chimica. I principi e i modelli concettuali descritti nei Capitoli 3 e 7 forniscono una base adeguata per capire i processi di dissoluzione dei minerali che portano alla formazione di un suolo. Carson & Kirkby (1972) sottolineano inoltre che nelle regioni umide la dissoluzione chimica del materiale da parte dell’acqua sotterranea ed il suo trasporto lungo il pendio possono essere di per sé stesse una forma rilevante di erosione del pendio, ed in alcuni casi dello stesso ordine di grandezza di tutte le altre forme di erosione meccanica combinate. L’elevato carico disciolto in numerosi fiumi riflette l’efficacia della rimozione chimica come agente di trasporto. Carson & Kirkby (1972) forniscono una sintesi dei dati disponibili per gli Stati Uniti che correla le concentrazioni dei carichi disciolti nei corsi d’acqua con i tassi medi di abbassamento della superficie topografica per effetto della dissoluzione. Per un bacino idrico negli Stati Uniti meridionali con un ruscellamento medio annuo di 20 cm, una concentrazione media di soluti di 200 ppm nelle sezioni di flusso misurate rappresenta un tasso di denudazione di 0,003 cm/anno.

Il trasporto di materiale verso le parti più basse del pendio causato da agenti meccanici avviene sia per movimenti discreti di ammassi rocciosi sotto forma di frane, scivolamenti e colate di terra, che per trasporto di sedimenti da parte del ruscellamento superficiale. L’influenza sull’instabilità del pendio provocata dal campo di pressioni interstiziali che si sviluppano nei sistemi di flusso del pendio stesso è stata trattata nel Paragrafo 10.1. I concetti ed i meccanismi di rottura, ivi descritti in un contesto geotecnico, sono ugualmente validi quando si esamina il ruolo delle frane nell’evoluzione delle forme superficiali. Non verrà ripetuta qui la loro trattazione; piuttosto, seguendo Kirkby & Chorley (1967), esamineremo le implicazioni dei differenti meccanismi di formazione di un reticolo idrografico, come descritti nella Paragrafo 6.5, sui processi erosivi superficiali.

L’analisi classica dell’erosione di un pendio è una conseguenza diretta dei concetti di Horton (1933) sulla formazione di un deflusso in alveo. Il modello di Horton presuppone il verificarsi di un deflusso superficiale diffuso. Poiché la profondità e la velocità di questo deflusso aumentano lungo il pendio, ci dovrebbe essere un punto critico nel quale il flusso diventa sufficiente per mobilizzare particelle di suolo e trasportarle lungo pendio. Al di sotto di questo limite, si svilupperanno canali di deflusso per effetto dell’erosione.

Kirkby & Chorley (1967) notano che il modello di Horton è il più appropriato per pendii nudi in regioni aride. Tuttavia, su pendii vegetati in regioni umide, è più facilmente riscontrabile un passaggio da pioggia a ruscellamento tramite il deflusso sotterraneo o tramite i meccanismi proposti da Dunne & Black (1970a, 1970b), per i quali il deflusso superficiale è ristretto alle zone umide in prossimità dei canali. In queste circostanze, l’erosione superficiale causata dal deflusso superficiale sarà limitata alle aree depresse adiacenti ai corsi d’acqua. L’erosione regressiva collegata ai corsi d’acqua tributari avverrà per sifonamento (Paragrafo 10.2) nei punti di emergenza dei percorsi di filtrazione sotterranea. Le ubicazioni di questi punti sono controllate in larga misura dalla distribuzione della conducibilità idraulica nel sottosuolo. Indirettamente, la stratigrafia del sottosuolo esercita una forte influenza sulla densità e sulla distribuzione del reticolo drenante che si sviluppa in un bacino idrografico di questo genere. In sintesi, le posizioni relative delle zone umide sature, delle aree sorgenti e delle filtrazioni sotterranee che controllano la natura dei processi erosivi di un pendio in climi umidi riflettono direttamente il regime idrogeologico saturo-insaturo del sottosuolo.

Processi Fluviali

L’approccio classico per l’analisi del trasporto solido nei corsi d’acqua trascura completamente l’effetto delle forze di filtrazione in alveo. È ben noto che i letti dei fiumi sono o disperdenti o drenanti rispetto al flusso sotterraneo, ma non è chiaro se le forze di filtrazione create da questi flussi svolgano un ruolo significativo nei processi in alveo e nell’evoluzione della morfologia fluviale. Questo quesito è stato oggetto di un lavoro di Harrison & Clayton (1970), i cui risultati sono tuttavia in parte ambigui.

L’ispirazione per il loro studio venne da una serie di osservazioni effettuate su un corso d’acqua in Alaska, nel quale gli autori notarono un contrasto impressionante fra le porzioni del fiume drenanti l’acquifero sottostante e quelle disperdenti. Il tratto drenante trasportava ghiaia e ciottoli delle dimensioni di alcuni pollici, mentre la parte disperdente trasportava sedimenti non più grandi di un limo o di una sabbia molto fine. La competenza del tratto drenante, definita come la dimensione massima delle particelle che inizieranno ad essere mobilizzate ad una determinata velocità del corso d’acqua, era di 500 volte maggiore rispetto a quella del tratto disperdente. Poiché questa variazione di competenza non poteva essere spiegata da differenze nella velocità del corso d’acqua, nella pendenza del canale o nei sedimenti delle sponde, Harrison & Clayton conclusero che le differenze dei gradienti di filtrazione nel letto del fiume erano responsabili del significativo aumento della competenza nei tratti drenanti. Questa conclusione sembrava logica, dato che una filtrazione verso l’alto nei tratti drenanti farebbe galleggiare i sedimenti nel letto del fiume, riducendone la densità effettiva e permettendone il trasporto a velocità molto più basse del normale.

Per testare questa ipotesi, venne avviato uno studio in laboratorio. I risultati degli esperimenti, contrariamente alle aspettative, mostrarono che i gradienti di filtrazione avevano un’influenza limitata sulla competenza. Il solo effetto confermato dagli esperimenti di laboratorio riguardava il processo di filtrazione verso il basso nei canali con un elevato carico di sedimenti sospesi. In queste condizioni tendeva a formarsi uno strato impermeabile di fango sopra il letto del corso d’acqua. Questo strato di fango limitava la mobilizzazione ed il trasporto dei sedimenti d’alveo nelle zone in cui si era deposto. A posteriori, gli autori conclusero che le osservazioni di campo in Alaska avrebbero potuto essere spiegate abbastanza bene con questo meccanismo.

Vaux (1968) effettuò uno studio sulle interazioni tra il flusso in corsi d’acqua ed il flusso sotterraneo in depositi alluvionali fluviali in un contesto completamente differente. Il suo interesse si concentrò sul rapporto di interscambio fra corso d’acqua superficiale e acque sotterranee e come questo influenza l’apporto di ossigeno nelle zone di riproduzione del salmone. Egli utilizzò un modello analogico per valutare i fattori che controllavano il sistema.

Processi Glaciali

Una comprensione delle forme glaciali si può meglio ottenere mediante un esame dei meccanismi di erosione e sedimentazione che accompagnano l’avanzamento e la ritirata dei ghiacciai e delle calotte glaciali continentali. Attualmente è ampiamente riconosciuto (Weertman, 1972; Boulton, 1975) che la presenza di acqua nei pori dei suoli e delle rocce che si trovano al di sotto della massa di ghiaccio esercita un ruolo importante sul tasso di movimento del ghiacciaio e sul suo potere erosivo. L’esistenza di acqua alla base di un ghiacciaio è una conseguenza del regime termico ivi esistente. Il calore, sufficiente per sciogliere il ghiaccio alla base, è prodotto dal gradiente geotermico e dal calore generato per la frizione dovuta allo scivolamento.

Si consideri ora il flusso del ghiaccio attraverso una roccia permeabile satura. Il movimento del ghiaccio implica ancora una volta l’applicazione della teoria di Terzaghi sullo sforzo efficace presentata nel Paragrafo 2.9. Elevate pressioni interstiziali portano ad una riduzione dello sforzo efficace al contatto ghiaccio-roccia e ad un aumento della velocità di avanzamento. Pressioni ridotte tendono ad aumentare lo sforzo efficace e a rallentare le velocità di avanzamento. Meccanismi simili sono stati considerati nell’applicazione del criterio di rottura di Mohr-Coulomb all’analisi delle frane (Paragrafo 10.1) e nella teoria di Hubbert-Rubey sulle faglie di sovrascorrimento (Paragrafo 11.1).

L’erosione glaciale avviene sia per abrasione che per estrazione sradicamento. L’abrasione del substrato affiorante da parte del ghiaccio in scorrimento è causata dall’azione di sfregamento dei detriti glaciali che vengono inglobati alla base del ghiacciaio. La loro presenza alla base del ghiacciaio è l’evidenza della capacità di sradicamento da parte del ghiaccio in movimento che è in grado di staccare materiali dalla roccia fratturata e dai depositi non consolidati e di trasportarli altrove lungo il suo percorso. In aree dove esistono unità sub-glaciali permeabili, le pressioni dei fluidi in questi strati possono esercitare un’influenza considerevole su entrambi questi processi erosivi. Boulton (1974, 1975) fornisce un’analisi quantitativa del ruolo delle acque subglaciali nei processi sia di abrasione che di sradicamento.

Clayton & Moran (1974) hanno presentato un modello dei processi glaciali che contestualizza il regime erosivo di una calotta glaciale continentale all’interno delle relazioni fra il flusso del ghiacciaio, il trasporto di calore ed il flusso di acqua sotterranea. Consideriamo una calotta di ghiaccio in movimento al di sopra di un’unità geologica permeabile (Figura 11.9). Lontano dai margini, dove il flusso del ghiaccio converge verso la base del ghiacciaio, l’acqua libera dovrebbe essere più presente rispetto al permafrost, e la pressione dell’acqua nei pori potrebbe essere elevata. Dato che in questa zona il ghiacciaio non è congelato alla base, si registra uno scivolamento e l’abrasione è il solo processo erosivo. Vicino ai margini del ghiacciaio, al contrario, il flusso del ghiaccio diverge dalla base, le pressioni dell’acqua nei pori sono minori, la massa di ghiaccio è verosimilmente più congelata al proprio letto, e lo sradicamento è la principale modalità di erosione.

Figura 11.9 Relazioni tra flusso di ghiaccio, trasporto di calore, flusso delle acque sotterranee ed erosione glaciale ai bordi di una coltre glaciale continentale (tratto da Clayton & Moran, 1974).

Moran (1971) e Christiansen & Whitaker (1976) forniscono una descrizione dettagliata delle diverse strutture glacio-tettoniche che si possono formare in depositi glaciali in seguito all’inglobamento di blocchi di grandi dimensioni e allo sviluppo di sovrascorrimenti ai margini del ghiacciaio. Tra i meccanismi suggeriti per la formazione delle elevate pressioni interstiziali che sono condizione necessaria per lo sviluppo di queste deformazioni ci sono (1) l’avanzamento della coltre di ghiaccio al di sopra della estremità di un acquifero sepolto, (2) l’avanzamento del ghiaccio al di sopra di detriti contenenti blocchi di ghiaccio sepolti abbandonati da precedenti fasi di avanzamento, (3) la consolidazione di sedimenti compressibili determinata dal peso del ghiaccio, e (4) la rapida formazione di uno strato di permafrost contemporaneo alla glaciazione. Questi ultimi due concetti erano stati discussi per la prima volta da Mathews & MacKay (1960).

11.5 Acque Sotterranee e Mineralizzazioni di Interesse Economico

Le moderne teorie inerenti l’idrologia delle acque sotterranee non hanno finora trovato ampia applicazione nel campo dell’esplorazione mineraria. Esiste tuttavia un grande potenziale per il loro utilizzo su almeno due fronti. Innanzitutto, la genesi di molti depositi minerari di interesse economico è strettamente collegata ai processi chimici e fisici che hanno luogo in un contesto idrologico sotterraneo. Molte delle ipotesi riguardo le modalità di formazione dei vari corpi minerari potrebbero beneficiare delle analisi idrogeologiche che utilizzano l’approccio dei sistemi di flusso del Capitolo 6 e i concetti idrogeochimici del Capitolo 7. Inoltre, è chiaro che la maggior parte delle anomalie scoperte durante l’esplorazione geochimica potrebbero essere interpretate in modo più esaustivo se la teoria del flusso delle acque sotterranee venisse utilizzata nella ricerca della loro sorgente. Nei due sottoparagrafi che seguono, ciascuno di questi punti verrà esaminata brevemente. Esiste un’ampia letteratura nel campo dell’esplorazione mineraria e, fatti salvi alcuni testi convenzionali, la bibliografia citata si limita quasi esclusivamente a quei lavori che richiamano dinamiche o metodologie idrogeologiche.

Genesi di Depositi Minerari di Interesse Economico

White (1968), Skinner & Barton (1973) e Park & MacDiarmid (1975) forniscono un’eccellente bibliografia recente riguardo i depositi minerari di interesse economico e la loro genesi. La lettura delle classificazioni dei depositi minerari da loro presentate rende chiaro che esistono pochi tipi di depositi che non coinvolgono in qualche modo i fluidi sotterranei. L’influenza diretta di acque sotterrane poco profonde è responsabile dell’arricchimento supergenico nelle aree di ricarica e della deposizione di caliches ed evaporiti nelle aree di deflusso. Anche i processi di degradazione che portano alla formazione di lateriti coinvolgono processi idrologici.

I meccanismi genetici di gran lunga più importanti che coinvolgono il flusso sotterraneo sono quelli che portano alla formazione di depositi idrotermali. White (1968) riassunse il processo in quattro fasi che porta alla formazione di depositi minerari coinvolgendo un fluido acquoso. Innanzitutto, deve esserci una sorgente per i componenti della mineralizzazione, solitamente dispersi in un magma o in rocce sedimentarie; in secondo luogo, devono avvenire la dissoluzione nella fase liquida dei componenti minerali e, terzo, la migrazione del fluido contenente il metallo; infine, il quarto, la precipitazione selettiva dei componenti della mineralizzazione. White (1968) sottolinea che le brine di Na-Ca-Cl molto saline sono dei potenti solventi per metalli quali rame e zinco. La prova che queste brine esistono risiede nel fatto che si incontrano comunemente nell’esplorazione petrolifera profonda. Queste brine hanno tre possibili origini: magmatica, connata e meteorica. Le acque connate sono quelle intrappolate nei sedimenti durante la loro deposizione. Le acque meteoriche sono acque sotterranee che si originano alla superficie topografica. Acque meteoriche che circolano in profondità possono raggiungere una sufficiente salinità solo attraverso processi secondari quali la dissoluzione di evaporiti o la separazione selettiva di alcuni componenti chimici per mezzo di membrane (Paragrafo 7.7). La precipitazione dei minerali per formare la mineralizzazione è causata dai cambiamenti termodinamici nelle brine riconducili al raffreddamento, alla riduzione di pressione o alle reazioni chimiche con le rocce o i fluidi incassanti. Questi processi vengono meglio compresi mediante uso di calcoli di trasporto di massa come quelli pionieristici di Helgeson (1970).

Con questi concetti introduttivi a portata di mano, limiteremo ora la discussione all’analisi di un tipo specifico di deposito minerario che è stato ampiamente ricondotto a processi che coinvolgono il flusso di acque sotterranee: i depositi di piombo-zinco-fluorite-barite del tipo Mississippi Valley.

I depositi di piombo-zinco della valle del Mississippi (White, 1968; Park & MacDiarmid, 1975) sono depositi stratiformi in rocce carbonatiche sub-orizzontali che non presentano strutture tettoniche che ne possono controllare la posizione. Si rinvengono a basse profondità in aree distanti da intrusioni magmatiche. La loro mineralogia è di solito semplice e non-diagnostica, con sfalerite, galena, fluorite e barite come minerali principali. È stata proposta un’ampia varietà di possibili origini per questa tipologia di deposito, ma White (1968) conclude che la deposizione da parte di brine connate circolanti e riscaldatesi ad elevate profondità è il meccanismo più compatibile con i dati di temperatura, salinità e isotopici disponibili.

Noble (1963) suggerì che la circolazione di acqua connata potrebbe essere stata controllata dalla compattazione diagenetica di strati sorgente. Le brine espulse in questo modo dai sedimenti sarebbero quindi state trasportate successivamente attraverso zone trasmissive (Figura 11.10) che sarebbero diventate il luogo di concentrazione dei minerali principali. Le brine avrebbero potuto contenere metalli in soluzione prima del seppellimento, come pure metalli acquisiti durante la diagenesi dei sedimenti incassanti. La teoria di Noble è attraente poiché fornisce un processo unitario per la lisciviazione dei metalli da una sorgente estesa su un grande areale, per la loro migrazione attraverso un sistema geologico e per la loro concentrazione in rocce carbonatiche altamente permeabili.

Figura 11.10 Sezione idealizzata di un acquifero che trasporta brine mineralizzate prodotte dalla compattazione di strati sorgente (tratta da Noble, 1963).

McGinnis (1968) suggerì una modifica alla teoria di Noble per la quale la compattazione degli strati sorgente veniva compiuta dal carico fornito dalle calotte continentali. In queste condizioni, le brine sedimentarie sarebbero state forzate a fuoriuscire vicino ai margini dei ghiacciai continentali con un meccanismo simile a quello descritto nel paragrafo precedente in relazione alla Figura 11.9. L’ispirazione per la spiegazione fornita da McGinnis è l’apparente raggruppamento dei depositi del tipo Mississippi Valley lungo l’estremità più meridionale dell’area interessata dalla glaciazione continentale e nell’area non interessata del Wisconsin.

Hitchon (1971, 1977) notò che i depositi petroliferi e quelli minerari in rocce sedimentarie hanno molte caratteristiche in comune. Entrambi sono aggregati di sostanze disperse su un’ampia superficie e concentrate in un’area specifica dove i carichi chimici o fisici nei fluidi acquosi che li trasportano ne provocano la deposizione. Egli ritiene che il petrolio nel campo petrolifero di Zama-Rainbow nell’Alberta settentrionale e i depositi del tipo Mississippi Valley a piombo-zinco del vicino giacimento minerario di Pine Point possano essere stati depositati in sequenza dallo stesso fluido di origine. Entrambi sono localizzati nella formazione Keg River del Devoniano medio, e Pine Point è a valle di Zama-Rainbow considerando le distribuzioni dei carichi idraulici che si osservano attualmente nella formazione Keg River. Come osservazione indipendente dalla precedente, Hitchon nota che il petrolio è un componente minore comune nelle inclusioni fluide dei depositi di piombo-zinco del tipo Mississippi Valley.

In chiusura di questo sottoparagrafo val la pena notare, come fatto da Hitchon (1976), che l’acqua è il fluido fondamentale che collega geneticamente tutti i depositi minerari. L’acqua è il veicolo del trasporto dei materiali in soluzione e prende parte alle reazioni che portano inizialmente alla dissoluzione dei metalli e successivamente alla loro precipitazione come minerali. Se il moto dell’acqua sotterranea cessasse, acqua e rocce potrebbero raggiungere l’equilibrio chimico e fisico e non ci sarebbero altre opportunità per la formazione di depositi minerari. In questo senso, l’esistenza di un flusso sotterraneo è essenziale per la formazione dei depositi minerari.

Implicazioni per l’Esplorazione Geochimica

Hawkes & Webb (1962) definiscono con il nome di prospezione geochimica ogni metodo di esplorazione mineraria basato sulla misura sistematica di una o più proprietà chimiche di qualunque materiale presente in natura. Il materiale può essere roccia, suolo, sedimento fluviale, acqua o vegetazione. L’obiettivo di un simile programma di misurazioni è l’individuazione di distribuzioni chimiche anormale, o anomalie geochimiche, che potrebbero indicare la presenza di un corpo minerario.

Distribuzioni chimiche anomale in acque sotterranee o in acque superficiali sono talvolta chiamate anomalie idrogeochimiche. Gli elementi metallici più mobili, cioè gli elementi più facilmente disciolti e trasportati in acqua e che producono quindi più facilmente anomalie idrogeochimiche, sono rame, zinco, nickel, cobalto e molibdeno (Bradshaw, 1975). Piombo, argento e tungsteno sono meno mobili; oro e stagno sono virtualmente immobili. A causa del costo di una perforazione, le acque sotterranee raramente vengono campionate direttamente, ma le sorgenti e le aree infiltrazione sono ampiamente considerate nell’esplorazione geochimica. La Figura 11.11 mostra i differenti tipi di anomalie geochimiche che si potrebbero sviluppare in prossimità di un corpo minerario. L’acqua sotterranea svolge un ruolo importante nel recapito di ioni metallici alle zone di concentrazione idrogeochimica in aree di infiltrazione o in sedimenti di laghi e di corsi d’acqua.

Figura 11.11 Diagramma schematico che mostra lo sviluppo di anomalie geochimiche in un’area ove il substrato è coperto da un suolo residuale (tratto da Bradshaw, 1975).
Tipi di anomalie: SL (R), anomalia in suolo residuale; SP, anomalia in zona di filtrazione; SS, anomalia in sedimento fluviale; LS, anomalia in sedimento lacustre. La densità dei punti indica l’intensità dell’anomalia.
Geologia: 1, substrato; 2, suolo residuale; 3, alluvium recente.
Altri: OB, deposito minerario; PPM, parti per milione; %Cx, concentrazione estraibile a freddo; →, direzione del flusso delle acque sotterranee.

Una delle applicazioni più proficue delle tecniche di campionamento da sorgenti è quella descritta da de Geoffroy et al. (1967) nel distretto minerario a piombo-zinco della Valle del Mississippi superiore. Gli autori campionarono 3.766 sorgenti su un’area di 1.066 km2. Una interpretazione delle misure indicava 56 anomalie relative allo zinco. Di queste, 26 coincidevano con depositi di zinco noti, ed il campionamento mediante perforazioni di un ridotto numero di anomalie rimanenti confermava la presenza di una mineralizzazione a zinco nelle loro vicinanze. Nei terreni carbonatici di quest’area, il campionamento di acque superficiali è stato inefficace perché i metalli pesanti nelle acque sotterranee precipitano velocemente entro una breve distanza dal punto di emersione in superficie. De Geoffroy et al. (1967) concludono che il campionamento da sorgenti è il metodo geochimico più soddisfacente nella ricerca di corpi minerari di dimensione moderata in rocce carbonatiche.

Ci sono stati altri esempi di campagne di esplorazione geochimica che hanno utilizzato con successo le acque sotterranee. Fra le conclusioni più interessanti ci sono quelle di Graham et al. (1975), che osservarono come il fluoro nell’acqua sotterranea possa essere un indicatore per mineralizzazioni a piombo-zinco-bario-fluoro, e Clarke & Kugler (1973), che sostengono come l’elio disciolto nell’acqua sotterranea sia un indicatore per i depositi di uranio. Come nota negativa, Gosling et al. (1971) riportano che la prospezione idrogeochimica per la ricerca di oro nel Colorado Front Range non è stata promettente.

Hoag & Webber (1976) suggeriscono che le concentrazioni di solfati nelle acque sotterranee possono essere usate per stimare la profondità di mineralizzazione di possibili corpi minerari, dato che sono indicative dell’ambiente di ossidazione dei solfuri che li producono. Gli autori indicano che quest’informazione potrebbe aiutare a determinare quali modalità di ulteriore esplorazione sarebbero più utili per localizzare possibili depositi di solfuri.

In tutti questi contesti, gli sviluppi recenti nell’idrogeologia chimica e fisica esaminati in questo libro sono estremamente pertinenti. I ritmi ai quali i metalli provenienti da corpi minerari vengono portati in soluzione dalle acque sotterranee circolanti sono controllati dai principi introdotti nel Capitolo 3 e discussi nel Capitolo 7. I processi di diffusione, dispersione e ritardo che accompagnano il loro trasporto da parte di sistemi di flusso sotterraneo sono identici a quelli descritti nel Capitolo 9 in relazione alla contaminazione delle acque sotterranee. Probabilmente il suggerimento più diretto riguardo l’applicazione delle teorie del flusso delle acque sotterranee all’esplorazione geochimica è stato proposto da R.E. Williams (1970). L’autore suggerisce che un campionamento idrogeochimico iniziale dovrebbe essere limitato alle zone di recapito dei sistemi di flusso regionali. Una volta individuate le anomalie geochimiche, i percorsi di flusso dell’acqua sotterranea che le portano ad esse possono essere determinati mediante i metodi di mappatura idrogeologica di campo e di modellazione matematica introdotti nel Capitolo 6.

Letture Consigliate

CLAYTON, L., and S. R. MORAN. 1974. A glacial process-form model. Glacial Geomorphology, ed. D. R. Coates. State University of New York, Binghamton, N.Y., pp. 89–119.

DONALDSON, I. G. 1962. Temperature gradients in the upper layers of the earth’s crust due to convective water flows. J. Geophys. Res., 67, pp. 3449–3459.

HUBBERT, M. K. 1954. Entrapment of petroleum under hyrodynamic conditions. Bull. Amer. Assoc. Petrol. Geol., 37, pp. 1954–2026.

HUBBERT, M. K., and W. W. RUBEY. 1959. Role of fluid pressures in mechanics of overthrust faulting: I. Mechanics of fluid-filled porous solids and its application to overthrust faulting. Bull. Geol. Soc. Amer., 70, pp. 115–166.

THRAIKILL, J. 1968. Chemical and hydrologic factors in the excavation of limestone caves. Bull. Geol. Soc. Amer., 79, pp. 19–46.

WHITE, D. E. 1968. Environments of generation of some base-metal ore deposits. Econ. Geol., 63, pp. 301–335.